Un mondo di lupi
Crescere donna in mezzo agli uomini. Una storia vera.
Infanzia 1
Avevo otto anni e facevo la terza elementare. Durante la prima lezione di musica, il maestro si rese conto che ero piuttosto brava: il mio orecchio era eccellente, leggevo la musica con estrema facilità ed era veramente molto strano tenendo conto della mia palese incapacità di farcela con qualsiasi cosa avesse a che fare con la matematica. Dove le frazioni matematiche mi terrorizzavano, in musica erano una sciocchezza semplicissima e riuscivo a suonare qualsiasi cosa mi mettesse davanti con il mio piffero di plastica.
Piffero con il quale i miei compagni producevano nenie disturbanti, mentre io ne tiravo fuori suoni, a suo dire, meravigliosi.
Io non lo sapevo, né l’ho saputo per i miei successivi 28 anni di vita, ma all’epoca già facevo i conti con una lieve discalculia e un’ADHD mai diagnosticata. Ero la classica “è intelligente, ma non si applica”, eccellente in tutte le materie artistiche e classiche, ma non in quelle scientifiche, dramma che si è ripetuto poi anche successivamente.
Mentre ai miei compagni maschi veniva diagnosticato l’autismo solo se si spaccavano la testa contro lo spigolo del tavolo, i miei processi mentali venivano ignorati, perché ero una femmina e si sa, le femmine fanno così.
Tuttavia i miei genitori erano entusiasti: c’era qualcosa in cui ero brava a parte il disegno, qualcosa che per loro era tangibile: la musica.
Invece di farmi intraprendere il conservatorio come sarebbe stato sensato fare, mi mandarono alla banda di un paese vicino. Qui conobbi il Direttore, un uomo di quasi 50 anni che, non lo sapeva nessuno, aveva il vizietto di farsi piacere i bambini.
Funzionava così: prima di scegliere lo strumento da suonare, bisognava fare un anno di solfeggio. Per me era un’assoluta cazzata e anche per il mio maestro a scuola: sapevo già solfeggiare a occhi chiusi senza che nessuno me l’avesse insegnato, leggevo bene la musica (ma solo in una chiave, perché nel momento in cui si passava dalla chiave di Sol a quella di Fa, il mio cervello non riusciva più a computare la trasposizione delle note), quindi che senso aveva non farmi passare avanti?
Ma no, il Direttore aveva detto sia al maestro che a i miei genitori che fosse assolutamente necessario che io passassi quell’anno a solfeggiare, ad affinare la mia capacità di lettura, bla bla bla cazzate cazzate che però erano dette da un uomo autorevole, quindi per forza giuste.
Quindi mi hanno messo in mano a un pedofilo per un anno intero.
Per carità, non si è mai arrivati al punto in cui si fosse tirato fuori l’uccello, alla fine era un uomo rispettabile, che però faceva passare a noi bambini (ce n’erano diversi oltre a me, maschi e femmine, di età simile alla mia) la lezione di solfeggio sulle sue ginocchia, a turno. Nessuno di noi disse mai niente per anni.
Il fatto che non si fosse mai tirato fuori l’uccello, almeno in mia presenza, non significa che tale uccello non fosse presente. A otto anni ho imparato la sensazione di avere il cazzo in tiro di un uomo adulto contro il culo. A nove, un anno dopo, ho quasi rischiato di trovarmelo in bocca.
È andata così: di fianco alla stanza di solfeggio c’era il suo ufficio. Oltre il suo ufficio c’era la stanza degli strumenti. Era arrivata l’ora dell’investitura, quella nella quale avrei finalmente scelto il mio strumento musicale e lui mi ci portò, tenendomi per mano e chiudendosi la porta alle spalle.
Ricordo distintamente la sensazione delle sue mani sulle mie inesistenti tette mentre mi diceva che se volevo suonare il sax che tanto desideravo, allora avrei dovuto fargli una cortesia.
Una cortesia, ecco come l’aveva chiamata.
Io non ero particolarmente innocente o stupida, a otto/nove anni. A sette avevo scovato già dove mio padre nascondeva il porno nella vecchia casa e avevo divorato quella roba con la curiosità sconfinata tipica dei bambini (e sapevo già bene cosa stavo guardando, giacché a differenza della scuola moderna, le nostre maestre ci fecero di nascosto educazione sessuale facendo venire un tizio malato di HIV che ci spiegasse tutto. Una delle lezioni più importanti della mia vita) e, quando ci trasferimmo in quella nuova, ci misi esattamente una settimana a capire dove teneva i fumetti erotici in cantina. Il fatto che li avesse messi in alto per non farmici arrivare non era stato un deterrente.
Quindi ecco, per tornare a noi, sapevo esattamente quello che stava per accadere e io non ero proprio per niente stupida. Perché i bambini non sono stupidi e io sapevo che i giornaletti porno che mio padre si imboscava in cantina erano finti e non poteva farmi alcunché, mentre quello che si stava slacciava i calzoni davanti a me era verissimo e reale.
Di quel momento ricordo solo lo scatto che feci dopo averlo guardato male. Un attimo dopo ero già fuori dalla porta e scesi di corsa le scale, dove mio padre mi aspettava chiacchierando con il Presidente.
“Hai scelto lo strumento?”
“No.”
“Come no.”
“Ci sto ancora pensando. Vorrei il sax, però.”
Avevo il potere di distruggere quell’uomo, mi sarebbe bastato aprire la bocca e dire a mio padre quello che era successo e conoscendolo sarebbe anche andato in galera (mio padre, perché del Direttore avrebbero trovato il cervello spalmato sulle pareti), ma non lo usai.
Primo: mi avrebbe creduto? Avevo le prove di quello che era successo? Perché alla fine non era successo niente.
Secondo: ero uscita, nessuno aveva provato a fermarmi (a posteriori devo fargli dei sarcastici complimenti: era molto bravo a non fare niente che potesse sembrare controverso e infatti credo fosse la primissima volta che tentava qualcosa di simile), non avevo lividi, non si era effettivamente slacciato i pantaloni.
Mi resi conto che, sebbene io sapessi perfettamente cosa fosse quella cortesia, di fatto il cazzo non se l’era mai tirato fuori.
Quindi stetti zitta.
Il risultato fu che non ebbi mai il sax, ma il flauto traverso, perché per punirmi, lui decise che l’orchestra aveva bisogno di un flauto, non di un altro sax — che comunque era una roba da maschi — e così per colpa sua rimasi inchiodata per i successivi quindici anni con uno strumento di cui non mi interessava assolutamente nulla perché un uomo lo aveva deciso per me.
Il lato positivo è che non mi volle più a solfeggio, dichiarando che ero pronta per passare alla classe successiva. Lì incontrai l’altro maestro, un vecchio polistrumentista pazzo nel culo con la quale litigavo per due ore secche ogni volta, ma che mi voleva un bene dell’anima. Non tutti gli uomini fanno schifo, mi resi conto. E così accantonai quella cosa in un angolo del mio cervello.
For those of us who grow up in bodies that are labeled female, we learn young that the male gaze is everywhere. And our primary job, in choosing our clothes, our hairstyle, our posture, is to please it. It is the yard stick that determines our lovability, our inclusion in society, and our worth as human beings. Girls learn the male gaze so well that some of them never learn to look through their own eyes.
The fetishization of girlhood by M.C. Easton
Infanzia 2
Avevo un sacco di tic.
No sul serio, ne avevo a centinaia. Sbattevo gli occhi, mi grattavo, quando camminavo sul marciapiede potevo camminare solo dove la riga di fianco era continua, mentre dovevo saltare quando questa si interrompeva. Giocavo a pensare, rimanendo ore nel mio mondo mentale a inventare storie.
Mia madre non apprezzava.
Nota bene: mia madre non era una donna violenta. Mia madre è nata purtroppo in una famiglia povera, con un padre ubriacone, che l’ha educata in una certa maniera e per lei era del tutto normale pestarmi come un tamburo con il cucchiaio di legno al fine di correggere questi miei tic. Da correggere c’era anche il fatto che fossi mancina, quindi è stato nell’infanzia che ho imparato il masking.
Mia madre, anche se ora è piuttosto aperta sull’argomento, all’epoca aveva una certa pruderie che cozzava particolarmente su quello che riguardava le questioni femminili. Per esempio: io sapevo che prima o poi sarei dovuta diventare signorina. Avere le mestruazioni. Lo sapevo perché avevamo un’enciclopedia medica in casa che mio padre mi spingeva a leggere ogni volta possibile. Lei stessa in generale mi spingeva a leggere ogni cosa che mi capitasse davanti, in casa mia era del tutto normale mangiare a tavola mentre ognuno di noi di fianco aveva un libro aperto (tranne mio fratello, che era l’esatto contrario).
Quindi vederla bloccarsi, proprio freezarsi davanti alle mie domande su “ma quindi quando mi viene sto ciclo?” era strano.
Adolescenza 1
Volevo il motorino, ma mio padre mi disse di no, perché a suo dire mi sarei andata a schiantare contro un muro in quanto femmina e incapace a guidare come mia madre.
Questa sua esternazione mi fece molto strano, ve lo dico. Mio padre non è mai stato un sessista o un misogino, anzi. Era estremamente equo per quando riguardava il trattamento tra me e mio fratello, ci dava gli stessi mezzi e si svenava per permetterci di coltivare qualsiasi minuscolo interesse ci venisse in quel momento. Non aveva problemi a comprarmi giochi da maschio se li volevo e non batteva ciglio se mio fratello più grande giocava con le Barbie insieme a me. Anzi, ricordo piuttosto bene un episodio in cui un ospite a casa nostra fece un commento in merito e si prese un vaffanculo perché suo figlio poteva giocare con il cazzo che voleva.
Mio padre era estremamente progressista, tranne quando si parlava di motori. Tirava fuori la scusa che ero una donna, cosa che mi lasciava perplessa, per nascondere il fatto che fosse terrorizzato dal fatto che io cadessi e mi facessi male alle gambe come era successo a lui in passato (scoprii poi dopo che nemmeno mio fratello ebbe sto maledetto motorino).
Questo assaggio di sessismo involontario però fu il primo di una lunga serie di sessismi volontari: i compagni di classe maschi che non volevano giocare con me perché ero femmina. Nonostante fossi molto brava a basket nessuno mi voleva in squadra perché ero femmina (prima lezione: non mostrarti superiore ai maschi nello sport, non la prendono bene).
I primi commenti sui peli delle mie gambe arrivarono presto, in prima media credo: “depilati cazzo, sembri un orso”. Immaginatemi a undici anni, con quattro peletti biondi sugli stinchi, sentirti dire che fai schifo in pantaloncini perché… perché… perché sì.
Perché sei femmina.
Nel frattempo c’era un membro della mia famiglia che aveva lo stesso vizietto del Direttore della banda, ma che non aveva le palle di agire come aveva fatto il primo. Non dopo il “smettila o lo dico alla mamma” che deve avergli fatto perdere dieci anni di vita. A oggi, esprime ancora la sua preferenza nei miei confronti con goffi abbracci in cui cerca di toccarmi le tette, quindi mi viene da pensare che magari non aveva alcun vizio, ma il problema ero proprio io.
In ogni caso a scuola la questione si risolse in seconda media, quando tirai un cazzotto sul naso al bullo della mia classe. Improvvisamente ero cool presso i maschi, per motivi che non capivo, ma ehi, almeno avevano smesso di dirmi “puttana” ogni dieci minuti perché avevano appena imparato quella parola.
Adolescenza 2
Mia madre decise che non potevo andare a scuola e al conservatorio nello stesso momento perché erano troppo distanti l’uno dall’altro, quindi niente più conservatorio. A quel punto chiesi di fare le superiori al conservatorio (a differenza di una scuola normale, non avrei fatto la maturità in quinta, ma un anno dopo, perché per quel flauto di merda il percorso scolastico durava sei anni), ma fu mio padre a opporsi, dichiarandosi contrario all’idea che prendessi i mezzi — la metropolitana! Daniela, ma sei matta? Ci sono i drogati sulla metropolitana! — e che lui nemmeno potesse accompagnarmi ogni mattina. Perché… perché aveva paura della metropolitana e soffriva di claustrofobia.
Chiesi di andare al liceo artistico e mia madre mi rise in faccia: “che lavoro pensi che ti darà fare la pittrice? Che prospettive vuoi avere?”
Litigammo per una settimana, ma alla fine mi resi conto che il potere ce l’aveva lei e non io, quindi che io volessi o meno, fui iscritta al Liceo Scientifico.
Io.
Io che non so contare e il cervello mi si spegne del tutto quando vede dei numeri. Una scelta arguta.
Adolescenza 3
Il grooming è l’adescamento di un minore tramite tecniche di manipolazione psicologica volte a superarne le resistenze e a ottenerne la fiducia per abusarne sessualmente. Talvolta questo accade in attesa che il suddetto minore diventi maggiorenne.
In italiano si chiama cresci che ripasso.
Avevo 15 anni, andavo (male) alle superiori e venni approcciata da un uomo che aveva 18 anni più di me. All’epoca mi parve una cosa figa, visto che né io né le mie coetanee eravamo sante e come tutti gli adolescenti eravamo ormoni su gambe. A differenza del maestro di musica, quest’uomo era bellissimo, giovane (più o meno), con il macchinone, mi comprava cose e mi portava in posti.
E siccome ero particolarmente stupida e giovane, era anche molto capace a farmi credere che non ci fosse nulla di male che un uomo tanto più grande fosse interessato a me, anche perché io stessa mi sentivo “già grande”, cosa che non ero.
Non ha mai aspettato che crescessi per ripassare.
Vita adulta 1
Quel tizio l’ho sposato a vent’anni.
Nel tempo in cui ci sono stata insieme è stato bravissimo a staccarmi dai miei genitori, dai miei amici, dai miei affetti. Dopo averlo sposato ho imparato che quello che lui voleva era una moglie trofeo, giovane, da esibire. Voleva essere invidiato dai suoi pari.
Scopava come un coniglio, durava se va bene qualche minuto, e mai una volta nella vita è riuscito a farmi provare un orgasmo, convincendomi di essere frigida.
Prima di sposarmi però mi ero innamorata di un mio collega sul lavoro e sono abbastanza sicura che lui ricambiasse. Un giorno gli dissi “dimmi di non sposarlo e lo lascio”. Lo avrei fatto, sul serio. Se lui avesse risposto di sì, probabilmente oggi non sarei qui a scrivere questo articolo. Ma tra me e l’ex compagna con figlia, lui fece la scelta più giusta per sé.
Lì imparai una lezione importante: nessun uomo mi avrebbe mai salvata, per cui avrei dovuto farlo da sola.
Vita adulta 2
Nel frattempo, però, le cose con mio marito erano cambiate e il suo tanto professato grande amore nei miei confronti è diventato odio. Prima è arrivata di nuovo la manipolazione psicologica e il mio modo di vestirmi doveva essere più accorto perché non sopportava che altri uomini mi guardassero, mentre prima era un punto di vanto.
Venivo accusata di essere infedele (non lo ero mai stata), di essere troia (perché avevo vent’anni e mettevo la minigonna), di essere stupida (perché avevo un lavoro modesto), di essere problematica (perché ero spesso punita sul lavoro a causa delle mie idee sindacaliste e comuniste), di essere grassa (sono alta 181cm, all’epoca pesavo 60kg e non mangiavo, se mangiavo dopo mi inducevo il vomito ed ero a un passo dall’anoressia nervosa), di essere civetta (perché parlavo con i miei colleghi uomini), di non essere presente (perché passavo del tempo con i miei genitori), di essere una pazza ossessionata (perché avevo delle passioni che, come ora, mi portano ad andare in hyper focus), di non essere abbastanza religiosa (non sono mai stata credente, mentre lui mi trascinava ogni domenica mattina a messa).
Odiavo il sesso (ed è uno dei motivi per cui non mi piace ancora oggi), perché ogni rapporto era uno stupro “consensuale” in cui dovevo adempiere ai miei doveri di moglie ed era inammissibile che potessi non essere disponibile.
La sua paranoia, alimentata sempre di più da sua madre (che viveva con noi e lo controllava come una marionetta), diventava ogni giorno più violenta e furiosa, al punto di collassare infine in una crisi psicotica dalla quale non so come sono uscita viva. Quando vedo donne lamentarsi che sono state fischiate per strada e si incazzano per molestie, da un lato do loro ragione, ma dall’altro penso che siano tutte cazzate. Tutto è una cazzata, quando hai sposato un uomo che possiede una pistola e ha giocato alla roulette russa con la tua tempia. O che possiede un manganello e ti ha resa incapace di camminare per giorni, salvo poi implorarti perdono.
Che ti ha fatto considerare che forse l’idea di andare in galera non era così male, perché eri a tanto così da accoltellarlo nel sonno.
Non sono mai andata al pronto soccorso. Né dai carabinieri. Qualcuna a leggere potrebbe storcere il naso, perché “lo Stato ti aiuta, lo Stato ti protegge”. Lo Stato non fa niente di tutto questo e se mi fossi rivolta allo Stato, io adesso sarei a fare da cibo ai vermi sotto tre metri di terra.
Ho divorziato, facendo le valigie approfittando della sua assenza, una mattina alle 4. Mi sono nascosta in un albergo per una settimana, il tempo di sistemare il mio licenziamento, facendo cose terrificanti nel mentre perché l’essere umano è una macchina disgustosa che risponde ai traumi emotivi con il sesso.
Sono tornata a casa dai miei.
Oggi 1
La psicoterapia è una cosa bellissima. Ti aiuta a rimettere insieme i cocci dei tuoi traumi e lasciatemelo dire: gli psicofarmaci sono una figata. Oggi ho la fortuna di stare con un uomo che è l’esatto contrario di quello che ho sposato, che quando ho teso la mano non ha esitato un secondo a buttarsi per tirarmi su.
E scrivo, perché alle volte è necessario fare il punto della propria vita e dire le cose ad alta voce. Tuttavia il mio essere donna in un mondo di uomini non è certo migliorato. Sebbene la mia situazione mentale sia decisamente cambiata, le molestie, il sessismo, il mobbing e un sacco di altre cose spiacevoli nate dal fatto che io sono donna non sono certo finiti.
Devo fare anche una considerazione: sebbene questo non sia l’elenco completo degli abusi, delle molestie e dei traumi che ho subito nella mia vita (la lista sarebbe veramente infinita), posso dirmi abbastanza vecchia per affermare che sono le esperienze che mi hanno resa quello che sono oggi.
Perché? Perché per ogni no che dico oggi, per ogni limite che pongo, per ogni volta che vengo chiamata stronza e bastarda perché sono ferma sulle mie posizioni, per ogni opinione che esprimo, per ogni volta che qualcuno si incazza perché non sono accomodante, tutto questo è la summa di quello che è successo prima. Ho volontariamente deciso di smettere di essere la preda di chiunque, uomo, donna o altro che sia. A prescindere dalla situazione, dall’argomento, dalla gravità dell’evento: io mi rifiuto di piegarmi ancora. A costo di essere chiamata stronza per tutta la mia vita.
Mi rifiuto inoltre di aderire alla pornografia del dolore in cui la vittima piange e viene dipinta come una cosa debole da salvare. Non sono qui per farmi compatire, sebbene mio ex marito mi abbia stuprata per la maggior parte del nostro matrimonio. Mi rifiuto e basta. Questo però non significa che altre donne debbano essere come me o peggio, aspirare a essere come me. L’unica cosa che c’è da aspirare è un mondo in cui una donna nasce e in nessun momento della sua vita subisce quello che ho subito io. Quello che abbiamo subito tutte noi, chi più e chi meno, almeno una volta nella vita. Perché nessuna di noi può dire di non aver vissuto almeno una molestia e chi dice il contrario banalmente non sa riconoscere la cosa.
Quindi perché scrivo queste parole oggi? Qualche settimana fa è uscita la notizia che il figlio di La Russa avrebbe violentato una ragazza. Le parole del ministro sono state le seguenti: “dubito delle parole di una persona che denuncia quaranta giorni dopo”.
Ecco, io per scrivere queste parole ci ho messo 37 anni. Altro che quaranta giorni.
Oggi 2
Aggiungo questo pezzo a tre settimane dalla data di pubblicazione, in occasione del cosiddetto Stupro di Palermo, dove un gruppo di sette uomini (tra cui un minorenne) hanno stuprato una donna di 19 anni.
In questi giorni stanno girando gli screen delle chat di questi tizi, sono stati resi noti i loro nomi e cognomi, i loro account social. E mentre sul web si dibatte se fosse il caso o meno di pubblicare questa chat (spoiler: lo è. Non perché aggiunge trauma al trauma, ma perché dobbiamo essere consci di quello che abbiamo davanti), ho notato un meccanismo tutto maschile che porta gli uomini a difendere l’anonimato degli stupratori perché «gli si rovina la vita così».
C’è una cosa che si chiama pornografia del dolore ed una cosa disgustosa che nei media pubblicitari o d’informazione associa le immagini del dolore della vittima (spesso rappresentata con il volto tumefatto) o di rivelare dettagli morbosi del reato allo scopo di spettacolizzare l’evento e venderlo meglio. Ed è sempre a spese delle donne. Oggi questa cosa si è sovvertita per un attimo e pletore di uomini hanno panicato nel vedersela ritorcere contro.
Per cui è pieno ovunque di uomini che berciano not all men, pieni di furia, perché ci tengono a mantenere ben salda (anche in maniera inconsapevole) l’idea che chi stupra o molesta è una cellula impazzita, un mostro. O un animale, non è un caso che ritornino spesso le analogie con le bestie.
Eravamo come 100 cani su una gatta.
Quello che mi premeva dire in questo post è che per tutta la vita noi donne cresciamo, sin da piccolissime, con l’effettivo problema degli uomini. E non sono mostri, non sono anomalie, non sono animali. Sono spesso i nostri amici, parenti, compagni. Sono uomini che ricoprono un ruolo di potere. Sono persone normali, che un giorno ti dicono che ti amano, il giorno dopo ti ammazzano di botte e il giorno dopo sono sui gruppi telegram a vendere/regalare le foto di vostra figlia di 7/8 anni a sconosciuti per farsi le seghe.
Il peggior incubo per un uomo è essere accusato di essere uno stupratore.
Lo sai qual è il peggior incubo di una donna?